domenica 27 gennaio 2008

Folletti (Kalikànzari …Sciacùddhia)

Dal 25 di dicembre, giorno di Natale, fino all’Epifania ci sono dodici giorni. E’ il tempo che giungono i folletti (schiacùddhia, che vengono chiamati kalikànzari in Grecia). Loro, brutti e pelosi, hanno gli occhi rossi e la lingua penzoloni.
Sono piccolo gli sciakuddhi, mezzi animali e mezzi uomini.
Sono sporchi spiriti che escono la notte di Natale da sotto la nera terra, dove sono nascosti, e fanno brutti scherzi alla gente.
Questo credevano molte persone del Salento e di Rodi, nel Dodecaneso, e di molte parti dell’Italia meridionale e della Grecia. I nostri anziani ci raccontavano che sotto la terra i folletti lavorano tutto il tempo, intenti a tagliare l’albero che regge la terra , “l’albero dell’universo”, perché vogliono distruggere la gente.
Però non possono tagliare quell’albero così grosso, l’albero sacro che rende forti gli uomini e dà conoscenza e sicurezza. Le sue radici sono stese nel profondo seno della Madre Terra. I suoi rami vanno in alto per pregare il padre del cielo.
L’albero fa i frutti che il Creatore ha dato alla gente perché imparasse la via dell’amore, che è : compassione, generosità, pazienza, coraggio, rispetto, umiltà e tante altre buone qualità.
Con l’albeggiare del giorno di Natale i folletti lasciano il loro lavoro ed aspettano che arrivi la sera per entrare dentro le case dal comignolo, ma anche dalla porta di casa se è aperta.
Vengono ad insultare gli uomini: gli solleticano i piedi quando stanno dormendo, tirano le lenzuola dai letti, gettano sabbia nei loro occhi, rovesciano la brocca piena di vino, tagliano da sotto le sedie dove son sedute le donne, inacidiscono il latte e amano intrecciare la coda ai cavalli. Saltano anche sulle spalle degli uomini e tirano i loro capelli. E se dove vanno c’è una bella ragazza le fanno brutte cose. I folletti non si possono vedere, sono invisibili; sono anche sciocchi ed hanno paura a pronunciare la parola “tre” perché il tre rappresenta la SantaTrinità; ed è per questo che sulle soglie delle case le donne mettono una scolapasta, e appena il folletto viene per entrare in casa, vedendola comincia a contarne i fori, ma non può andare oltre il due e pronunciare il tre. Così rimane fermo lì dov’è, contando uno…due, uno… due, uno …due , uno… due per tutta la notte.
Al primo canto del gallo, prima che il sole sorga, vanno a nascondersi nei luoghi oscuri, per ritornare ancora indietro con il sopraggiungere della nuova sera.
Le donne, in molte case, ogni sera accendono il fuoco sotto il camino mettendo grossi rami in modo che la fiamma duri tutta la notte.
Così i folletti non vengono perché non possono guardare la luce del fuoco e nemmeno la luce del giorno. Qualche volta mettono anche uno scarpone vecchio perché bruci ed emani un cattivo odore, affinché questi folletti non vengano nella loro casa. Questo fanno , ogni sera, fino all’Epifania.
Il giorno dell’Epifania la gente che va in chiesa, porta con sè delle bottiglie vuote; poi, durante la messa, le riempie con l’acqua santa che il prete ha benedetto. A casa loro, poi, mettono l’acqua santa in un piatto ed in mezzo mettono una croce e vi legano sopra un mazzetto di basilico.
Giorno e notte, la donna di casa spruzza, con la croce ed il basilico, l’acqua santa in tutti gli angoli della casa.
Mettono, pure, appesa al muro, una piccolissima bottiglietta piena di quell’acqua, così i folletti non potranno venire in casa e torneranno ancora sotto terra a lavorare per tagliare l’albero sacro.

THEONIA

La cerva e il sole (E cerva ce o ijo)

Hanno ucciso i nemici in guerra il suo figlio ed il suo marito
E la donna soto la immagine di una cerva confessa il suo dolore
Al Sole, il signore della gioia.

LA CERVA E IL SOLE

Buie notti nere e notti di luna
E mattine fresche di rugiada finchè non sorge il sole
Nel bosco i cervi corrono con i lor cerbiatti.
Sola una cerva va, carica di dolore;
piano cammina e stanca nell’ombra si rifugia,
mangia con malavoglia e ad ingoiare indugia.
Le sue lacrime beve insieme all’acqua chiara;
per tutto il giorno pensa a quanto la vita è amara.
Dall’alto il sol la vede
che tutto benedice
la illumina e le chiede:
"perchè tu sei infelice?
Cosa c’è mia cerva,
perché sola tu stai?
Perché non stai con gli altri
e a pascolar non vai?”

--Ti dirò, mio Sole, poiché tu me lo chiedi.
Per tantissimi anni figli io non ebbi,
ma, dopo tanta attesa, un bel cerbiatto è nato;
il mio amoroso latte fino a due anni ho dato.
Poi il cacciatore lo vide, di sera lo rubò!
Mirò per ammazzarlo e presto lo freddò.--
--Che tu sia maledetto uomo che la caccia fai,
che maledette siano le più belle gioie ch’ hai!
Due volte mi hai derubata: del figlio e del marito!
Che tu possa patire le pene che ho patito!!!--

Theonia Diakidis

Salonicco – Un luogo tra il ieri e il domani (I Thessaloniki - 'Na topo ames' to itté cè to avri)

Quest'anno ho fatto una cosa che volevo fare da molto tempo. Dal 28 febbraio all'11 giugno del 2007 ho fatto un viaggio che mi ha portato lontano da qui alle rive dell'Egeo, a Salonicco, città della Grecia, oppure Thessaloniki come la chiamano i greci, dove andai per delle lezioni di lingua neogreca. Così aggiustai la mia valigia e le mie carte, la sera presi l'aereo dall'aeroporto di Brindisi, e mi trovai lì all'una e mezza di notte, sotto la pioggia e il freddo invernali. Fu un'esperienza bella e grande per me, e ho conosciuto tanta gente, cose e luoghi nuovi, e vorrei ora raccontarvi qualche impressione che m'ha fatto quel paese, e presentarvi questa città.

Salonicco (Θεσσαλονίκη), con i suoi 800mila abitanti, è la seconda città della Grecia, ed è il centro economico e culturale di tutta la parte superiore del paese, la Macedonia. Salonicco è nata nell'anno 325 a.C. dalla mano di Cassandro, il re dei Macedoni, che li diede il nome di sua moglie: Thessalonike. Nell'anno 168 a.C. I Macedoni perdono la guerra con i Romani, e dopo, nel 146 a.C., il loro stato diviene parte dell'Impero Romano, e la città capitale della provincia romana Macedonia. Salonicco si trova nelle vicinanze della Via Egnazia (Οδός Εγνατία), strada che prendeva da Roma come centro storico dell'impero, e portava a Costantinopoli o Nuova Roma, la capitale di Bisanzio, o Impero Romano d'Oriente. L'anno 50 d.C. l'Apostolo Paolo visitò la città, e ci fondò la seconda comunità cristiana d'Europa. Del periodo romano sono rimasti parecchi monumenti come il Palazzo dell'Imperatore, l'Ippodromo, il Mausoleo di Galerio o Rotonda che al pricipio era tempio pagano, poi chiesa cristiana, dopo moschea e oggi nuovamente chiesa e museo, l'arco di Galerio, il Pantheon e il Forum. Nel 322 d.C., infine, fu Costantino Magno a regalare a Salonicco un nuovo porto.

Nell'epoca di Bisanzio che seguì, la città era la seconda d'importanza nell'impero dopo la capitale, Costantinopoli. Nel 1430 la città, dopo che i Turchi la avevano assediata per due mesi, cadde nelle mani degli Ottomani, dove restò fino all'anno 1912. Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna e primo presidente turco, nacque lì. Quando la città si unì con la Grecia nel 1912, ci vivevano 132mila abitanti, suddivisi in 65mila ebrei, 35mila greci e 30mila turchi o mussulmani. Dopo la Guerra Greco-Turca, nel 1922, si ribaltò ulteriormente la situazione, caciarono i turchi e gli ebrei, e in cambio vennero molti greci profughi dall'Asia Minore. C'era talmente tanta povertà che la chiamavano «i Protévoussa ton Prosfígon (la Capitale dei Profughi)» e «Ftochomána (madre dei poveri)». Inoltre, tutto il centro storico della città bruciò in un grande incendio nell'anno 1917, e quando ricostruirono gli edifici bruciati che erano tutti in stile orientale, il francese Ernest Hebrard che fece il progetto, lo fece tutto in stile occidentale. Così la città cambiò la sua faccia.

Oggi, dei luoghi storici della città resta il vecchio Bazar, che prima era l'agora o il mercato turco. Le Ladadika, che sono il luogo dove vendevano l'olio, e dove oggi aprono i ristoranti e le discoteche alla moda, e dove vanno a ballare e a passeggiare i ragazzi il sabato sera. Di prima rimangono molte chiese, tre moschee turche, l'Hamam (bagno turco) e il «Lefkos Pirgos (la Torre Bianca)». Belli sono i quartieri superiori come l'Aghios Pavlos, con le caratteristiche case e i vicoli, con i negozietti e le taverne dove la sera si può mangiare per pochi soldi. Ci sono pure diversi musei come quello bizantino e quello macedone, e ci sono due università con studenti che vengono da tutto il mondo per studiarci.

Tutto il centro con la Rotonda, la piazza e il corso d'Aristotele e il lungomare (paralía), è pieno di gente e di vita tutti i giorni e tutte le sere, e a volte è difficile di trovar posto a sedersi per bere un caffè. Salonicco è una capitale gastronomica e.. non c'è vacanza lì, senza scoprire taverne e ristoranti da dentro. Il cibo e il vino, e questo lo devo precisare, sono molto buoni sempre ed ovunque, e se hai soldi per pagare e della buona compagnia (paréa), lo puoi passare benissimo lì. Salonicco è un luogo dove è evidente la lunga storia di quella parte d'Europa, una storia che è pure la nostra credo. Il più della gente, si rallegrava molto quando li dicevo che sono greco salentino, e che so parlare anche il greco nostro. E' vero il proverbio che spesso dicono i greci quando parlano di noi: „Stessa faccia stessa razza“. Però la verità è, che siamo noi, i griki, il nesso che collega l'Italia con la Grecia e questo, lo dobbiamo tenere bene a mente.

Carlo Guarini

martedì 1 gennaio 2008

Il Grico vuole amore (o Grico teli agapi)

Alcuni vanno dicendo che il grico si perde perché possiede poche parole e non può strare dietro alla vita moderna cosi ricca e carica di cose nuove. Colui che afferma questo, o che conosca il grico o che non sappia neanche una parola, deve essere sempre un po’ professore. E molte volte lo dicono con un sorriso velato, con un tono irridente tanto da far sembrare questa lingua piccoletta, poveretta ed inutile e chi ci tiene ad essa sentirsi male e turbato.
Altre storie, però, si possono udire come quella di Assunta e di Abbondanza.
Mi raccontava l’ Assuntina: quando ritornai il primo giorno dalla scuola mia madre mi chiese come fosse andata. Io non comprendevo la lingua della maestra risposi: Ella dice tante belle cose, ma io non la capisco…
E Abbondanza mi riferiva invece: il primo giorno di scuola, dopo poco tempo mi alzai e chiesi alla maestra quando potevo andare a casa a mangiare. Questa, che era la “signorina D’Urso” non capì niente e chiamo Giovanni che era il bidello per farsi tradurre ciò che io dicevo…
Il grico. Quante guerre ha dovuto combattere per poter vivere. Con lo stato, con la chiesa, con i paesi vicini, con le guerre. Molte le ha vinte, ma ha perduto quella con la scuola, perse quella con i professori. Di storie come quelle di Ssuntina e di Mundanzia i “Tredici paesi” (così venivano chiamati i paesi grecofoni) ne sono pieni.
Quando i ragazzini cominciarono ad andare a scuola si trovarono di fronte ad un muro: per la prima volta non riuscivamo a capirsi con le altre persone.
La loro lingua non serviva più a comunicare, non con i propri pari, ma con chi capiva, con chi sapeva, con colui cha sapeva leggere, scrivere, far di conto, con chi sapeva di Dio e di ogni cosa. E veniva ad insegnarti ad istruirti. E tu non lo potevi capire.
Il Grico in una volta divenne un muro alto, un ostacolo, un grosso peso, un grande macigno, divenne una barriera: di qua il mondo contadino, il mondo dei poveri, il mondo degli ignoranti; dall’altra parte tutto un altro mondo, il mondo che ti dava gli strumenti per andare avanti, di guardare alto, il mondo che ti permetteva di crescere e di progredire, di apprendere.
C’è gente che dice che il grico si perde perché ha poche parole…
Il grico avrebbe potuto possedere il doppio delle parole, dieci volte di più, più parole dell’italiano, ma ormai era divenuto icona di povertà, icona di ignoranza, era divenuto pietra legata al piede, impedimento.
Non c’èra altro da fare che tagliare il nastro, varcare la soglia e venire da questa parte.
E così fecero tutti. E allora potevi vedere babele entrare nelle case: il padre parlare grico con sua moglie, la madre parlare italiano con i figli, i fratelli maggiori parlare grico e d i piccoli italiano.
Tagliarono il nastro e non si trovo nessuno che gli fermasse la mano: tagliarono col passato, recisero le radici, perdevamo la nostra identità e non si trovò nessuno a muover un dito.
Dov’erano i professori, affinché ci aprissero gli occhi, la mente, perché ci facessero capire il male che stavamo perpetrando?
E i politici? Non avevano niente da dire? Non potevano fare niente? Non vedevano niente? Non vedevano una cultura percossa e messa sotto i piedi?
Non vedevano la lingua da cui iniziarono, presero vita le culture mediterranee buttata alle ortiche? Non gli sembro male vedere quella lingua parlata da tanti secoli, quella lingua che fece sbalordire e meravigliare studiosi quali il Rohlfs, il Cassoni e tanti altri, che passarono la vita intera a studiare ad approfondire questo fenomeno, abbandonata dietro un angolo?
Poi si accorsero. Si accorsero tutti quando il grico divenne un “business”. Ed allora quante iniziative nuove sono nate! Tutte si sciacquano la lingua di “grecìa salentina”, di “area ellonofona”, ma di Lingua Grica non si sente parola e non si vede ombra. Ogn’una pensa a mungere pochi soldi in nome del grico, ma per la lingua sono poche, molto poche le volte in cui resta qualcosa.
Ma la lingua grica non chiede soldi. Il Grico vuole amore.

Giusppe De Pascalis

Sapete perchè la gente che d'estate vive a Roca Vecchia è tutta di Calimera? (Tzerete jatì o jeno, ka o kaloceri zii sti Roka Palea, ène manechò...)

Quando i Turchi nel presero Otranto, anche Roca fu conquistata. Molti secoli avanti Cristo era terra dei Messapi (ce lo dicono i ritrovamenti archeologici e le mura).
Successivamente fu un luogo sicuro per le scorrerie dei pirati. Carlo V ne ordinò la distruzione , eseguita dal Governatore di Terra d’Otranto Ferrante Goffredo nel 1544.
I Rocani superstiti si trasferirono nel largo di Roca Nuova, che si trovava a pochi chilometri dal mare.
Roca Nuova era formata da una porta d’ingresso, poche abitazioni, due strade, una piazza, una torre-palazzo, una chiesetta.
Nel secolo XIX (due secoli fa) 150 persone circa abbandonarono Roca Nuova per l’epidemia della malaria e si trasferirono nei comuni di Vernole, Melendugno, Borgagne e Calimera.
Dopo la II guerra mondiale i Calimeresi tornarono a Roca Vecchia e costruirono le case per trascorrere l’estate al mare con la loro famiglia.
Ora nel territorio di Roca ci sono soltanto case di Calimeresi.
Anche San Brizio, ce lo dice la sua storia, con una barca accompagnò nel nostro territorio Cordulo, un soldato che si trovava in Francia e quando lo lasciò gli chiese se conosceva il luogo. Ma dove poteva portarlo? A Roca dove vivevano i suoi.
Da alcuni documenti risulta che nella Cappella della Madonna di Roca c’era un altare dedicato a san Brizio, distrutto nel 1911.
I Calimeresi a Roca, che tanto amano, hanno scavato tante buche per i bambini, affinché potessero fare il fare il bagno quando il mare è agitato. I toponimi ce lo ricordano ancora: Conca di Pascariello, di donna Paolina, di Reale, la scala di Mezzomilione, il canale de Lu Mita.
I Calimeresi amano molto il mare di Roca, perciò d’estate sono tutti lì.
Anche San Brizio, che accompagnò Cordulo, ama il mare azzurro, limpido e bello di Roca nostra.
ENZA GUIDO

Nel paese del sole (Sto xorìo tu ìju)

Soleto.
Paese famoso per il suo bel campanile di cui solo pochi conoscono la leggenda.
Il popolo di Soleto racconta infatti che Messer Tafuri, grande mago, in una notte di tempesta, chiamò le streghe e i diavoli e fece costruire una torre alta e bella la più elegante che fosse mai stata costruita.
Ma fece loro la raccomandazione che dovevano finire l’opera prima del canto del gallo altrimenti non sarebbero potuti rientrare nel mondo degli inferi, ma sarebbero rimasti pietrificati per sempre.
All’alba il campanile era già quasi finito, solo quattro diavoletti si intrattenevano ancora ai quattro lati del campanile.
Il gallo cantò e i quattro demoni rimasero pietrificati ai lati e non poterono muoversi più di lì.
E sono ancora là a controllare dall’alto che tutto vada bene nel paese del sole, dei maghi e delle macare.
ANNA ZOLLINO – SOLETO

Camminando sulle rovine di Roca (pratònta panu sta lisària 'tti Roka)

Un giorno quest’estate stavo con mia figlia vicino a NFUCACIUCCI, e lei volle che la portassi sul castello. Camminando piano piano tra le pietre antichissime siamo saliti sopra: tra le erbe e tra le spine apparivano lì le mura, qui una porta, lì davanti le cisterne per il grano e le sagome delle stanze che alcuni anni addietro (gli archeologi) hanno tirato fuori da sotto la terra.
Mi sono ricordato delle storie che mio nonno mi raccontava quando ero bambino: mi parlava dei Turchi che giunsero a Otranto ed uccisero tante persone; e vennero anche a Roca, conquistarono il castello e fecero fuggire tutta la gente che viveva là.
Mi sembrava di vedere le ossa e le teste tagliate dei Martiri che Don Grazio (riposi in pace) ci faceva vedere ogni volta che andavamo a trovarlo a Otranto.
Mi ricordai della storia, che mi raccontava mia nonna, della Regina Isabella che stava lì nel castello di Roca; e delle preghiere che la gente di Calimera recitava per la Madonna.
Mentre camminavamo facevo vedere a mia figlia la terra annerita dal fuoco, piena di frammenti di terracotte; e i conci di tufo rosicchiati dal tempo che una volta erano muri e porte e che oggi stanno sospesi sul mare e che sembra aspettino solo di scivolare giù.
Siamo giunti sulla BALCONATA e mentre guardavamo la Posìa c’era un turista che veniva dal Nord e con una cartina voleva sapere dove si trovava il “Castello di Roca Vecchia” e “la Poesia con le iscrizioni antiche”.
Sulle orecchie aveva una cuffietta per ascoltare le partite e la sera doveva andare a Melpignano per assistere al “Concerto finale della Notte della Taranta”.
Un vermetto cominciò a intrufolarsi nel mio cervello. Ma ero un po’ frastornato: dovevo stare attento a dove mettevo i piedi per non cadere giù, e mia figlia come una “tronula” mi tempestava di domande.
Ma il vermetto diventò idea quando vidi una grande pietra, bucata e vecchissima, che piano piano da sopra scivolò giù e cadde nel mare!
L’idea era di scagliare anch’io un sassolino, piccolo piccolo: non in mezzo al mare, non per distruggere le antiche mura del castello; ma in una pozzanghera, in una pozzanghera grande ed immobile.
Qual è la pozzanghera?
La pozzanghera è che a Roca, nel Parco Archeologico, ormai da alcuni anni non si fa più niente: non lavorano più sul Castello né sulle Mura Messapiche; quelle poche stanze, che furono disseppellite anni fa, ora si sono riempite tutte di erbacce e di spine.
Nella Posia hanno trovato iscrizioni antichissime che migliaia di anni fa gente, che proveniva da tutti i luoghi e da tutti i mari, incise per invocare il proprio dio: adesso sta tutto abbandonato e ci sono solo piccioni e letame, e puzza tanto da non potersi neppure affacciare.
La Torre sembra che aspetti solo di crollare in mezzo al mare, e ogni anno che passa c’è un pezzo di scogliera che crolla.
A Roca in tutti i tempi c’è stata sempre gente: Messapi, Greci, Romani, Spagnoli. Molte cose antichissime possono ancora essere dissepolte da sotto la terra e da sotto le erbacce.
E il sassolino qual è?
Il sassolino è questo: l’Istituto Carpitella, la Provincia, l’Unione dei Comuni, che insieme organizzano la Notte della Taranta, per questa grande manifestazione raccolgono gente da tutte le parti e reperiscono soldi, molti soldi.
Hanno finanziato l’U.S. LECCE affinchè partecipi al campionato di serie B. Hanno fatto bene: il Lecce va in giro per l’intera Italia e sulla maglietta, insieme alla taranta, porta in giro l’intero Salento.
Io vorrei chiedere una cosa: gli organizzatori della Notte della Taranta non possono diventare SPONSOR del Parco Archeologico di Roca? Non possono, insieme all’Università o ad altre Istituzioni, presentare un “progetto” per sistemare la Torre, o per finire gli scavi del Castello, o per riprendere i lavori nella Posia, e dare i finanziamenti che servono?
Più passa il tempo, meno pezzi (di pietra) rimarranno di Roca Vecchia.
La Taranta può smuovere quella pozzanghera che altri non riescono a smuovere?
GIOVANNI FAZZI

Il mutamento climatico (H κλιματική αλλαγή)

Il rapporto dell'IPCC

Gli scienziati del Comitato Intergovernativo sui Mutamenti Climatici (IPCC) dell'ONU (premio Nobel per la Pace nel 2007), si sono riuniti a Valencia dal 12 al 17 novembre 2007.
Al termine del congresso, il Comitato ha presentato il rapporto destinato ai leader politici del pianeta.
L'avvertimento è chiaro: le conseguenze del cambio climatico possono essere irreversibili.

L'aumento della temperatura del pianeta previsto dal Comitato sarà tra 1,1 e 6,4 gradi centigradi nel 2100 rispetto al 1990.
Ne risulterà un aumento del livello del mare dai 18 a 59 centimetri. Le ondate di caldo e le piogge torrenziali che seguiranno saranno sempre più frequenti, e i cicloni tropicali saranno più intensi e violenti.
Il Segretario dell'ONU Ban Ki-Moon ha dichiarato :
“Non possiamo permetterci di lasciare Bali a dicembre senza “una svolta autentica per un accordo mondiale tra tutti i paesi” “.

Da parte sua, il Commissario Europeo per l'Ambiente, Stavros Dimas, dice che “La Comunità internazionale deve rispondere a quest'appello ed accettare che inizino i negoziati per un nuovo ed ambizioso accordo globale sul clima”.

Un anno dopo il rapporto Stern, la situazione è sempre la stessa, si costatano le stesse cose, si fanno le stesse osservazioni. Cosa farà la Comunità internazionale?

Il Rapporto Stern

Nicholas Stern (ex capo economista della Banca mondiale), nel rapporto che ha presentato al governo inglese nell'ottobre 2006, diceva: “Se la Comunità internazionale non prende misure drastiche per combattere il fenomeno “serra”, le conseguenze del mutamento climatico sull'economia saranno paragonabili a quelle delle guerre mondiali”.

Il costo annuale delle perdite dovute all'aumento della temperatura sarà dal 5% al 20% del PIL (Prodotto Interno Lordo) mondiale.
Per essere più chiari: se non facciamo niente, il mutamento climatico ci costerà 5.500 miliardi di euro[1].

I paesi più poveri della terra subiranno i danni più gravi. Due cento milioni di persone saranno trasferite; ne risulterà un'instabilità sociale, politica ed economica. Questa perdita “costituisce il più grande insuccesso del libero mercato”.

Invece, sostiene il rapporto, se la Comunità internazionale reagisce immediatamente, il costo per evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico saliranno solo all'uno per cento del PIL mondiale.
L'impronta ecologica misura l'impatto lasciato sull'ambiente da ciascuno di noi per soddisfare i propri bisogni in campo di nutrizione, mobilità ed abitazione. Tale impronta si esprime in ettari, di superficie terrestre, pro capite.
Si valuta che ogni europeo utilizza, oggi, una superficie di quasi dieci campi da calcio.
Se togliamo dalla superficie totale della terra i mari e la superficie necessaria alle altre specie viventi, e dividiamo il resto per sei miliardi (sei miliardi rappresenta la popolazione attuale della terra), troviamo che ad ogni europeo spetta una superficie di tre campi da calcio.
Dunque, se tutti gli abitanti della terra vivessero come gli europei, avremmo bisogno globalmente, per vivere, di tre terre. E si presume che nel 2050 saremo nove miliardi di esseri umani.
Conclusione: o diminuiamo le nostre pretese o diminuiamo la popolazione della terra.
Il rapporto indica le tre direzioni che devono prendere le politiche necessarie per affrontare il problema:

a) adeguare il prezzo del carbone, petrolio, gas ecc tenendo conto del costo sociale degli effetti nocivi delle loro emissioni. I paesi che superano la quantità di emissioni loro assegnate dovrebbero pagare una quota proporzionale all’eccedenza.
Il danno che provochiamo per ogni tonnellata di diossido di carbonio che emettiamo equivale ad almeno 85 dollari. Ma oggi questo costo è trascurato nelle decisioni prese sia dai consumatori che dagli investitori, giacché non è compreso nel prezzo di ogni merce. Facciamo qualche esempio. Se le cipolle che vengono dal Cile, le mele dall'Australia, i gamberetti che partono al mattino dal Belgio per il Marocco e tornano sbucciati la sera, le fragole spagnole ecc. costano meno delle rispettive soluzioni locali, è perché nel prezzo finale non intervengono né le conseguenze ambientali né quelle sociali causate dal trasporto.

b) verso una politica per lo sviluppo di tecnologie a basso consumo di carbonio. Sulla scala mondiale, la sovvenzione della ricerca sull'energia va almeno raddoppiata e quella per lo sviluppo della tecnologia a combustione ridotta va quintuplicata.

c) verso il ritiro degli ostacoli al risparmio energetico. Bisogna cioè informare, educare e convincere i cittadini del modo in cui possono affrontare i mutamenti del clima.

I fatti

Tutti abbiamo sentito parlare del film di Al Gore (Nobel per la Pace insieme all'IPCC) “Una scomoda verità”, riguardo la posizione degli USA sui problemi esposti dal Protocollo di Kyoto .

Tutti sentiamo ancora i rimproveri di chi non condivide le preoccupazioni degli “ambientalisti”.Gli argomenti però si limitano a negare le conseguenze del surriscaldamento globale e del mutamento climatico. Fin adesso non è stato presentato nessun argomento scientifico che smentisse le conseguenze dell'effetto serra.

Intanto, gli incendi di quest'estate 2007 nel sud europeo e le contemporanee alluvioni in Inghilterra e in India sono delle nuove prove dello squilibrio climatico.

Basta poi vedere le conseguenze catastrofiche della siccità in Grecia, dove non è piovuto da marzo a novembre. I responsabili della società idrica di Atene hanno rassicurato trionfalmente gli abitanti dicendogli : “abbiamo dell'acqua per due anni” e tutti si sono tranquillizzati. Fine agosto però sono arrivati nuovi incendi in Eubia e nel Peloponneso, e molti si sono agitati.
Sembra che siano azioni di incendiari organizzati. D'accordo, saranno incendi dolosi. Ma il cambiamento climatico che ha fatto diminuire le piogge ha avuto un ruolo determinante nell'aspetto catastrofico di tali incendi. La siccità ha fatto sicché gli incendi si sono allargati tempestivamente e ha moltiplicato la loro forza di distruzione.
È facile denunciare la dolosità degli incendiari, le mancanze dello Stato, la disorganizzazione ecc. Il fatto è che ogni estate in Grecia ci sono degli incendi. Quest'anno però si sono contati sessantatré morti.

Il 17 Novembre, mezz'ora di pioggia è bastata per allagare molte regioni da Komotini al Peloponneso. Torrenti catastrofici hanno portato via tutto quello che incontravano. I danni sono enormi.

Conclusione
I cambiamenti climatici risultano dal fenomeno dell'effetto serra provocato dall'inquinamento atmosferico.

Ciò nonostante, la Comunità internazionale non prende le misure necessarie per affrontare seriamente il problema. Sembra che la distruzione totale di New Orleans non sia sufficiente per renderci coscienti del fenomeno. Forse per riuscirci ci vuole una catastrofe ancora peggiore.

Pensiamoci. Di terra ne abbiamo una sola.

Iannis Papageorgiadis
Novembre 2007


[1] Il PIL dell'Italia nel 2006 era di circa 1.500 miliardi di euro.


L'impronta ecologica misura l'impatto lasciato sull'ambiente da ciascuno di noi per soddisfare i propri bisogni in campo di nutrizione, mobilità ed abitazione. Tale impronta si esprime in ettari, di superficie terrestre, pro capite.
Si valuta che ogni europeo utilizza, oggi, una superficie di quasi dieci campi da calcio.
Se togliamo dalla superficie totale della terra i mari e la superficie necessaria alle altre specie viventi, e dividiamo il resto per sei miliardi (sei miliardi rappresenta la popolazione attuale della terra), troviamo che ad ogni europeo spetta una superficie di tre campi da calcio.
Dunque, se tutti gli abitanti della terra vivessero come gli europei, avremmo bisogno globalmente, per vivere, di tre terre. E si presume che nel 2050 saremo nove miliardi di esseri umani.
Conclusione: o diminuiamo le nostre pretese o diminuiamo la popolazione della terra.

Omeopatia: terapia che somiglia al male

Molte persone oggi quando hanno un problema di salute prendono farmaci omeopatici.
Ma cos'è questa omeopatia?
Quando ho studiato per diventare medico, non mi hanno detto nulla di questa medicina "omeopatica" e credo che non sia una cosa buona perchè i medici dovrebbero conoscere tutti i farmaci che si vendono per consigliare, nel bene o nel male, coloro che vengono da loro.
Così ho voluto informarmi un po' su questa "omeopatia".
La prima cosa che ho saputo è che non si tratta di una novità ma di un sistema terapeutico nato più di 200 anni fa, quando non conoscevamo nemmeno a cosa serviva il sangue, la bile, il cervello.
A quel tempo osservavano con gli occhi l'uomo e inventavano teorie per siegare come nascevano le malattie e come guarivano.
Così un medico tedesco, Samuel Hahnemann, pensò che si potesse combattere la malattia con un farmaco che induce nell'uomo gli stessi sintomi della malattia, seguendo l'antico principio "similia similibus curantur" (si cura il simile con il simile). Da qui il nome "omeopatia", dall'antica parola greca homoios (simile), da cui viene anche il nostro verbo "ammiàzo".
Per fare un esempio, volendo curare una malattia che porta mal di testa e febbre dobbiamo trovare una sostanza che, dopo essere stata assunta, provoca anch'essa mal di testa e febbre. Poi, per creare veramente il farmaco, si prende questa sostanza e si diluisce moltissimo, perchè gli omeopati credono che il farmaco più è diluito e più è efficace. Ma non basta: per prepararlo bene bisogna scuoterlo fisicamente per caricarlo di "Lebenskraft" (Forza Vitale), così è finalmente pronto.
Una volta era una modalità abbastanza diffusa questa per creare medicine, e qualcosa di buono ne è venuto fuori, come il vaccino del vaiolo. Ma non era un paradiso, sappiamo che la vita era breve, molti bambini morivano di malattie e non si erano trovati rimedi veramente efficaci per la malattia e per il dolore.
Al giorno d'oggi qualcosa è cambiato: abbiamo il microscopio, la radiologia, la biologia molecolare. Conosciamo le funzioni di quasi ogni tessuto e fluido del nostro corpo, sappiamo come il nostro organismo estrae energia dal cibo e lo trasforma in carburante utile a far vivere le nostre cellule. Sappiamo da dove vengono molte malattie, causate da virus, batteri o da qualcosa che funziona male nel nostro corpo e nel nostro cervello.
Certo non sappiamo tutto, ma sappiamo molte piccole cose che si sono dimostrate vere, dall'altra parte la grande "forza vitale" è nata e rimasta solo nella testa degli omeopati e dei filosofi.
Inoltre sappiamo anche un'altra cosa. Per dire che una medicina funziona non basta l'opinione di chi l'ha creata o di coloro che l'hanno provata, perchè sappiamo che quando si dà dell'acqua a una persona convincendolo che si tratta di una medicina è facile che questo si senta meglio, è quello che si chiama "effetto placebo".
Perciò oggi i farmaci che si vendono si sono dimostrati più efficaci del placebo in studi controllati. Per i farmaci omeopatici sono stati fatti pochi studi controllati e sembra che questi pochi abbiamo dimostrato che l'omeopatia fa poco o nulla più del placebo.
Gli omeopati ribattono che coloro che hanno condotto questi studi hanno avversione pregiudiziale contro l'omeopatia e sostengono che non è così che si dimostra l'efficacia della loro terapia.
A me personalmente l'omeopatia non inspira fiducia e talora ci vedo dietro solo un business.
Ma su un'aspetto secondo me gli omeopati hanno ragione. Oggi i medici spesso non guardano l'uomo malato nella sua integrità: trovano la malattia, danno un farmaco per curarla, calcolano e dicono quante possibilità ci sono per il paziente di guarire o di morire.
Ma non è questo che si aspetta la persona malata, che desidera di essere ascoltato e di essere considerato come uomo e non come malattia da curare.
Però per fare questo non giova tornare alla medicina di 300 anni fa, basta coniugare un po' di umanitò alla scienza moderna.

Francesco Penza

Signore (Aftènti)

Addesso che è Maggio è passato è viene l’estate
Il cavaliere straniero deve partire per la sua terra.
Di notte sella il suo cavallo con sella d’argento
con briglie rivestite di perle….
La ragazza che lo ama, la ragazza che lo vuole
Abbasatti ha gli occhi e sciolti i capelli,
gli fa luce con una candella ed ha un bicchiere in mano,
quante volte gli porge da berre, tante volte gli dice:
“Portami mio signore, portami a stare con te
cuccinero per te, accomoderò il tuo letto
metero il mio letto vicino al tuo,
portami, mio signore, portame a stare con te”
Il cavaliere che la desidera, il stragniero che la ama
baciandole la mano, cosi risponde:
“La dove son dretto non ci sono ragazze,
solo uomini, solo giovani vanno li”
E lei con lacrime agli occhi lo prega:
“Fammi vestire come te, dammi abiti di uomo
e dammi un cavallo veloce da la sella dorata
che io verrò con te,.come fossi un cavaliere.
Portami, mio signore, portami con te,
Portami, amato mio, portami a stare con te”…

Theonia Diakidis

Greco Calabrese e Greco Salentino: e Alìssia

Greco calabrese:

I Alìthia
Mia vvradìa me to fengari enan àndra èrketo an din ozzìa: pos ecatèvenne zonària zonària, posso tu fènete man ghineca magni, ma chamme, manachì, me ta maddìa catevammena. “Pis iste calì jineca?” tis aròtie. « I Alìthia » ip’ecini. “Ce jatì stèkite manachì se tundin àcharon ozzìa?”. I jinèca eplàtezze ce ipe. “Echi ìcosi sècula ti èfiga se tundes ozzìe: prita oli m’egapussa ce oli eplatèggai me tin glossa tin dikimmu, tote o àthropo iton àthropo , o logo ito llogo … arte oli thèlusi to Zzema!”

Greco salentino:

E Alìssia.
Ena vràdi m’o fèngo, enas àndra èrcato apò to mea-gonì: sàtti eccatèvenne, mes tus precipìziu, tòsso ìde ambrò, ecimèsa, mia mmàli ghinèca, manehìtti ce ma maddhìa limmèna. “Tis ìse, calin ghinèca?” Is ròdise. « E Alìssia », ìpe cìni. “ce jatì estèi manehìssu es tùtto mea-gonì ìu agricò?” E ghinèca mìlise ce ìpe: « èhi ìcosi sèculu ti èffia es tùtta mala-gonìa: prìta òli m’agapùsane ce òli milùsane min glòssa ti dichìmmu, tòa o àntropo ìone àntropo, o lòo ìone lòo… àrte òli dulèune to Fsèma.

La Verità
Una sera con la luna, un uomo veniva giù da una montagna: mentre scendeva, tra i dirupi, all’improvviso gli appareve una grande donna; stava per terra, era da sola ed aveva i capelli sciolti.
- Chi sei, bella donna? Le chiese.
- La Verità. Disse ella.
- E perché te ne stai tutta sola su questo monte così selvaggio?
La donna parlò e disse:
Sono venti secoli che son fuggita su questi monti: una volta tutti mi amavano e tutti paralavano con la mia lingua. Allora l’uomo era uomo e la parola era parola … adesso tutti adorano la Menzogna.

Traduzione in greco salentino di Giuseppe de Pascalis

E anghèra mes' ti tàlassa

L’Aurora per specchiarsi nel mare
ha avvicinato agli occhi la luna:
la Luna che dall’ alto vede
ogni fanciulla che insegue l’amore.

Il Sole vide l’aurora dentro l’acqua
e si affrettò a baciarla sulla guancia.
Lei si schernì e serrò la bocca:
e divenne più bella chè arrossì.

Il Sole, con una fiamma di fuoco,
la riempì di luce, per amarla!
L’Aurora allora si tuffò nel mare!
Il Sole tremò a darle aiuto andò.

Veloce nell’acqua si gettò.
Si spense nel mare il suo splendore!
L’Aurora tra la luce si scottò:
annerì cocendo e venne Sera .

Mi sobbalzò l’anima nel petto:
si spaventò di quella notte nera!

Paolo Di Mitri

Mes to lustro atto nerò

In mezzo alla luce dell’acqua,
dentro la cisterna, in mezzo al buio,
ho visto le tua bocca sorridermi.

Ti ho desiderato con gioia
E ti ho gridato:” Vieni!”.
E nel secchio ti ho tirato,
vicino per baciarti.

Ma tu velocemente sei volata.
Perchè dovevo muoverti!

Paolo Di Mitri

Il mondo che cammina verso il tramonto (o kosmo pu pratì rtèa st'òmbi tu ìju)

noi che amiamo la lingua grika ci rivolgiamo sempre ad oriente, per trovare le radici che avevamo dimenticato o ci hanno nascosto.
Quest’anno mi è capitato di dirigere i miei occhi ad occidente, sono partito con la mia donna che doveva raccogliere informazioni per una tesi ed abbiamo camminato a piedi nel “Camìno de Santiago”. Così si chiama la strada che fammo i pellegrini per arrivare a Santiago di Compostela, in Galizia.
Una volta, molti secoli fa, uomini partivano da tutto il mondo cristiano (quello cattolico) per dirigersi a piedi verso la tomba dell’apostolo Giacomo, in Galizia.
Il pellegrino che arrivava là dopo aver camminato molti giorni, abbracciava il santo che siede sulla propria tomba e andava poi alla rive del mare seguendo il tramonto del sole, nel punto più ad ovest della terra allora conosciuta, prendeva una conchiglia e si incamminava per tornare a casa.
Con il tempo questo pellegrinaggio andò perdendosi e pochi andavano là quando il papa Leone XIII nel 1884 mandò a dire che là davvero riposano le ossa di san Giacomo. Da allora di nuovo si videro pellegrini a camminare sulla antica strada che porta a Santiago, per fare il “Camìno”, come si chiama là.
Il fenomeno crebbe ancora di più dopo che si fece la Gionata Mondiale della Gioventù a Santiago nel 1989 e dopo che il governo della Galizia e della Spagna si accorsero del bene che poteva venire a loro dai pellegrini. Negli anni novanta fecero pubblicità, aggiustarono bene la strada e aprirono “albergues” per ospitare gratis i pellegrini. E così sono sempre di più oggi quelli che si vedono camminare dai Pirenei fino a Santiago de Compostela. Alcuni fanni più di 700 chilometri, altri di meno iniziando da più vicino. Alcuni vanni perché sono molto credenti, altri tanto per fare un po’ di trekking.
Noi abbiamo fatto 110 chilometri e siamo partiti da Sarria il ventinove di Aprile. Arrivati là, abbiamo appreso che vuol dire “albergue”: un grande stanzone dove abbiamo dormito con altre venti persone, uomini e donne, una cucina dove ognuno poteva cucinarsi quello che voleva e un tavolo per sedere insiemi. Là abbiamo conosciuto qualche pellegrino per la prima volta: una donna della Germania che aveva camminato da sola già per più di 500 chilometri e due italiani che some noi partivano da là. La prima aveva perso il lavoro e stava facendo il “Camino” perché da molto lo desiderava, ma non sembrava farlo con tanta devozione religiosa; gli altri invece andavano perché uno di loro aveva fatto un voto quando la moglie stava per perdere il bambino durante il parto. Siccome le cose erano andate bene era partito con il padrino del figlio e stavano là, con uno zaino Invicta, pochi vestiti e nient’altro, neanche un k-way per corirsi dalla pioggia.
La mattina siamo partiti tutti, a piedi o in bicicletta, per camminare per 23 chilometri seguendo le frecce gialle che mostrano la strada. Pioveva e ci accorgemmo che non era così facile camminare con lo zaino in spalla nei boschi, sotto la pioggia, nel fango e sulle pietre. Arrivato a Portomarìn con le gambe che dolevano dalla fatica entrammo nel primo albergue per riposarci e dividemmo la stanza con un uomo di 70 anni che si chiamava Bernàrd, vero pellegrino, che aveva camminato da solo già per millesettecento chilometri a piedi dalla Bretagna, trovando rifugio nei conventi e soffrendo il freddo là dove non c’erano né albergues né segnali né un bar per riposarsi. Lo faceva per riappacificarsi con Dio e per portare a Santiago una lista di preghiere che aveva raccolto nel suo paese e durante il cammino. Così è là, incontri pellegrini, ci dormi e mangi insieme, ascolti i desideri, i pensieri, le cose successe durante il loro viaggio e racconti le tue, poi la mattina li lasci e gli dici “Bon Camino” per partire da solo e chissà se li rincontri di nuovo e chi troverai nella camera del nuovo albergue.
“Camino is not hotel, camino is albergue” diceva Bernard prima di dormire.
E così abbiamo passato cinque giorni, a dire il vero non abbiamo avuto molto tempo per pensare all’aspetto religioso, con la testa impegnata dalla fatica e dal dolore, raccogliendo notizie dagli altri pellegrini.
Abbiamo camminato così sotto il sole o la pioggia, mangiando panini con il “jamon serrano” (prociutto), polpo ed “empanàda”, una specie di pitta salentina.
L’ultimo giorno siamo saliti a Monte de Gozo, da dove si vede Santiago e siamo discesi con due altri italiani che abbiamo conosciuto, un boy scout di cinquant’anni che aveva perso tre figli ed era stato là già altre volte e un suo amico che voleva chiedere una grazia per suo figlio di cinque anni che ancora non riusciva a parlare.
Arrivato davanti alla chiesa che custodisce la tomba del santo, quello che chiedeva la grazia per il figlio inizio a piangere, ci siamo fermati un momento e poi siamo entrati dal “Portico de la Gloria” e siamo andati ad abbracciare il santo secondo la tradizione e abbiamo assistito alla “messa del pellegrino”.È finito così il nostro cammino e venuto il tempo di pensare a quello che avevamo passato: belli i luoghi che abbiamo visitato, le chiese ed i paesi, ma ci è piaciuta di più la gente incontrata: certo c’erano turisti nel Camino, ma ci siamo rallegrato di trovare anche qualche vero pellegrino, che portava nello zaino qualcosa che pesava più dei vestiti.

Francesco Penza

Parlando col mio amico Luigi

Parlando con il mio amico Luigi (di Sabatino), ho appreso che la festa di sant’Antonio era la festa in cui addobbavano le strade con i lampioni accesi. Non era per san Luigi. Facevano i lampioni, il falò e anche la cuccagna. Poi quando giungeva il giorno di san Luigi facevano un’altra festa con i lampioni che non si erano rotti o bruciati, visto che prima mettevano dentro i lampioni delle candele accese per fare luce colorata. Che lampioni? Costruivamo stelle, orologi, la luna gli aerei, le sfere e parecchie piramidi, ma i più grandi lampioni rappresentavano le navi e le stelle.
Nessuno dei bambini aveva i soldi per comprare le canne oppure la carta colorata per i lampioni e quindi, bisognava andare a trovare ciò che ci bisognava: “dovevamo trovare la carta e le canne e la farina di grano duro mischiato col miele per renderlo più appiccicaticcio. Potevamo prendere le canne dalle paludi di Roca, vicino alle acque, dove vivono tanti grandi uccelli e fiori acquatici dove dicono che anno casa le Nereidi. Io credevo che quelle donne ti vengono di fronte, se tu passi vicino alle acque della palude! Credo che c’erano veramente, perchè poco più avanti c’è ancora, in mezzo al mare, un posto incantevole che chiamano “Jannàra” che a Napoli vuol dire maga. Il De Ferraris ce lo ha scritto quando ha affermato che il paese di Nardò è stato chiamato dai Latini “ Neretum” perchè lì c’è molta acqua che sgorga da sottoterra e che quel posto fecondo era popolato dalle nereidi da cui il nome .
La gente crede che tra le canne delle paludi ci siano le nereidi: ti ballano intorno, dopo che è passata mezzanotte e ti fanno perdere la memoria per sempre. Questo dicevano pure i greci che arrivarono qui da noi tempo addietro!
Mi ha detto un archeologo del luogo ieri sera che, sotto il suolo di Roca ha trovato moltissimi repèrti Micenèi, anzi Minoici che sono ancora più antichi. Mi ha riferito che questo popolo abitava la nostra terra nel 1600 avanti Cristo. E questa è la notizia che ci viene da Roca.
Parliamo di canne! Le tagliavamo, poi andavamo a fare il bagno al mare, dopo cercavamo qualche anima buona che caricasse sul traino le canne per portarcele a Calimera. Per recuperare i soldi mettevamo in un piattino un’immagine di sant’ Antonio ed andavamo casa per casa a chiedere qualche monetina.
Tra le strade, con i piedi nudi sporchi di polvere di tufo, chè allora non v’erano le strade asfaltate.” Qualche volta mandavano me perchè ero il più piccolo, e quelli grandicelli si vergognavano a cercare, casa casa, i soldi ; c’era qualcuna che non ci dava nulla e ci diceva:” Vai da qui! Questo è il sant’Antonio delle ciliegie, vero?” Così mi dicevano. Dopo aver comprato la cartaoleata (rubavamo da casa la farina), cominciavamo a costruire i lampioni.
Andavamo dentro qualche cortile più grande: allora i bimbi amavano costruire gli aeroplani, perchè ancora c’ era la seconda guerra mondiale. Legavamo con lo spago le canne spaccate in listarelle, come ci servivano e facevamo ciò che ci piaceva. Ogni strada faceva la sua festa e vi erano una diecina di ragazzini dai dieci fino ai dodici anni.
Mi ha detto Luigi di Sabatino:” Legavamo sulle terrazze un filo che fosse un poco più resistente e poi sopraci le davamo i lampioni. Mettevamo candele dentro i lampioni e la luce ci sembrava bella dentro la cartaoleata di tanti colori.
Poi dovevamo fare il falò ( la fòcara) e bisognava trovare le fascìne e andavamo in giro per i forni dove facevano in pane e ci davano qualche legno o un poco di fascina o foglie secche, ma noi mettevamo per il fuoco tutto ciò che trovavamo nei campi, anche piante di rovo. La fòcara veniva accesa alle dodici della notte tutti i bambini gridavano e saltavano vicino al fuoco. Dentro gli occhi avevamo le fiamme della fòcara quando dormivamo nel lettino e aspettavamo che arrivasse presto ilo giorno per andare ancora vicino alla fòcara. Poi, quando albeggiava, andavamo correndo a vedere se la focàra si fosse spenta o no. Se aveva ancora un poco di fuoco, noi tutti bambini saltavamo la focara senza bruciarci per mostrare il nostro valore. Se s’era già spenta, saltavamo sulla focara per spegnere anche le scintille e disperdere la cenere intorno per cancellarne le tracce e tornare alla quotidianità ( alla prima mattina portavamo le scarpe, ma le toglievamo appena il sole s’alzava) e gridavamo qualche parola che non ricordo più.
Poi cominciavamo i litigi per stabilire quale strada avesse fatto la focara più grande o i lampioni più belli. E così arrivava, dopo una settimana, la festa di san Luigi.
Mettevamo i lampioni che erano rimasti dalla festa di sant’ Antonio, quelli che non si erano accesi e facevamo la festa del povero san Luigi che aveva il volto così pallido nella statua della Chiesa
Madre. Ma il santo che era il maggiore era sant’Antonio e la focara, non è allora che bruciano anche le stoppie nei campi? Poi facevamo la cuccagna per sant’ Antonio e sceglievamo il palo più alto che potevamo.
Per la verità facevano la cuccagna i ragazzi più grandi, anzi erano i giovanotti, perchè la cuccagna era cosa da grandi. Sopra vi appendevano una o due forme di formaggio, un poco di salsiccia, un fiasco di vino o un litro di rosolio che aveva fatto la nonna a casa, e qualche chilo di pasta comprata,più buona di quella che faceva la mamma a casa nostra. Spargevano tutta la cuccagna col sapone estratto dai resti dell’olio: ogni famiglia faceva a casa il sapone con l’olio sporco e il grasso delle capre.
Ogni squadra di quattro o cinque giovanotti si sforzava per raggiungere la cima della cuccagna.
Salivano te o quattro ragazzi sopra il giovane più robusto che doveva reggere gli altri sopra le sue spalle e quello più veloce, oppure colui che era più piccoletto si impegnava a salire più in alto per arrivare quanto più riusciva vicino al formaggio e il vino nero di Marvasìa!
Ma v’era il sapone che lo faceva cadere giù. Tutte le ragazze guardavano parlottando sul giovane più valoroso o di quello più bello. Prendevano coraggio e gli dicevano qualche cosa e loro si rallegravano e facevano di più per raggiungere la cima per mostrare ciò che sapevano fare.
Erano vestiti con una camicia bianca, pantaloncini corti e erano senza scarpe, per reggersi meglio sulla cuccagna. E molte volte, colui che era in alto ed era lì lì per raggiungere le cose buone che erano sulla cuccagna, non poteva più reggersi e cadeva giù trascinando con sè anche coloro che lo reggevano.
La squadra che arrivava a prendere le cose buone sulla cuccagna, li dividevano fra loro oppure andavano a mangiare tutti insieme e a bere tutto quel vino una volta tanto.
Quella festa era legata a quella di san Giovanni, che era la festa dell’estate, il giorno più lungo dell’anno!
La notte prima che sorgesse il giorno di san Giovanni le ragazze di Calimera rompevano in un piatto pieno d’acqua, un uovo e lo lasciavano sotto la luna e la rugiada tutta la notte. Al mattino potevano conoscere il mestiere che avrebbe fatto il giovanotto che avrebbero sposato. Guardando la forma che il bianco d’uovo aveva assunto. Le giovani donne chiedevano aiuto a san Giovanni perchè lui è il santo dei compari.

Paolo Di Mitri

Come dobbiamo scrivere in Griko: intervento di Penza

Io non ho imparato il griko dalla mamma, l’ho conosciuto dalle poesie e dai canti, mi sono innamorato di questa lingua ed iniziai ad impararla dal libro di Salvatore Tommasi “Katalisti o kosmo”. Per questo scrivo con il kappa, e scrivo “ch” per l’aspirata. Non penso che sia la migliore grafia del griko, possiamo anche scrivere con la C e senza K, oppure con il H o la X al posto di CH per l’aspirata. Però c’è qualcosa che dobbiamo tenere bene a mente quando andiamo a scegliere un alfabeto per il griko.
Io credo che l’alfabeto del griko deve essere adatto al griko, non alla lingua italiana o al greco moderno che parlano in Grecia. Può sembrare una cosa scontata, ma forse non lo è.
Una volta avevo scritto nella mailing-list Magna Graecia che credevo che fosse una cosa buona scrivere il griko con i caratteri greci, ma scrissi anche che non potevamo pensare di farlo adesso che il griko si perde.
Oggi già sono pochi coloro che possono leggere il griko scritto con i caratteri latini, figuriamoci quanti saranno quelli che possono leggerlo con i caratteri greci: se vogliamo fare qualcosa per dare un po’ di vita al griko dobbiamo iniziare dall’alfabero latino.
Ma quale alfabeto latino? Alcuni dicono quello che tutti conoscono avendolo imparato a scuola, fatto per la lingua italiana; altri dicono che si scriva come il greco moderno traslitterato in caratteri latini.
Io credo che si debba trovare un alfabeto per il greco salentino, adatto a far sì che si mostrino le parole ed i fonemi che escono dalla bocca di quelli che parlano greco salentino, non italiano o neogreco.
Certo sarebbe meglio scegliere caratteri più “popolari” ma credo che non facciamo un peccato prendendo qualche carattere “straniero” (non è poi così straniero oggi il K) oppure dando un altro suono ad un carattere o gruppo di caratteri italiani.
Per me ogni suono della lingua grika dovrebbe trovare il suo posto nella grafia. L’alfabeto deve adattarsi alla lingua, non dobbiamo credere che nisogna stiracchiare la lingua perché si adatto all’alfabeto.
Altra cosa che si deve ricordare è he oggi si scrive con la tastiera del computer e qui si vendono tastiere per la lingua italiana, per cui sarebbe meglio scegliere caratteri che si ritrovano in questa tastiera.
Poi c’è un principio che secondo me va mantenuto quando si sceglie l’alfabeto: un segni scritto deve leggersi in un solo modo e un suono pronunciato deve scriversi solo in un modo.
Molte lingue non seguono questa legge, nel neogreco ci sono molti modi per scrivere la “i”, perché hano mantenuto l’antica etimologia nella scrittura. Io credo che quando si sceglie un alfabeto nuovo, sarebbe meglio evitare ogni fonte di confusione in modo che la scrittura sia lo specchio della parola.
Così questi devono essere secondo me le fondamenta della scrittura del griko:
- la grafia deve essere adatta alla lingua, non deve la lingua adattarsi per entrare in un alfabeto fatto per un'altra lingua.
- Deve essere facile scrivere il griko con il computer.
- Ogni suono (fonema) deve avere la sua scrittura (grafema), ogni carattere deve leggersi con un suono solo.
io ho iparato a scrivere K per kòkkalo, C per ceràsi, Ch per chèra e credo che non sia così difficile per chi legge capire che la CH non va letta come in italiano “chiesa”. Ma non ho problemi a scrivere còccalo, ceràsi, hera.
Basta che non si confonda niente.
Invece quello che non mi va bene è scrivere con lo stesso modo due suoni che non sono affatto uguali.
In griko e nel dialetto romanzo esiste un “SC” molto corto che non è affatto uguale allo “SC” di scena: kàscio, sciòko…. Io credo che sia meglio trovare un sistema che dia a questo fonema un suo posto nell’alfabeto griko. Quello che si vuole: sh, sj, cj, sç, ç, š, dj… o altri grafemi, basta che non ci si confonda (“sh” si potrebbe confondere con s+aspirata nel caso scrivessimo H per l’aspirata).
Altri fonemi che per me non si dovrebbero confondere sono il TS/TZ come “tsalìdi”, “tsekànno” e il DZ/Z come “zoì”, “zòsi”, “fonàzo/fonàzzo”. Non è la stessa cosa, devono essere mantenuti distinti.
Qualcuno scrive “z” quando è dolce il suono, “zz” quando è aspro, io credo che sia meglio scrivere “TS” o “TZ” quando è aspro e “Z” quando è dolce.
Quando lo “TS” viene dal greco antico Y “ps” o X “ks” in qualche paese viene pronunciato “fs/ss” (martano) o “sc” (Zollino e talora Castrignano). Sarebbe bello trovare una grafia che possa unificare questa diaspora di ts/fs/ss/sc però forse rischiamo anche di confondere le cose, meglio che si veda il fonema di ogni paese.Altro problema per me sono le parole che finiscono per S e N, consonanti finali che sembrano scomparse ma in realtà spesso si nascondono nell’assimilazione alla consonante che segue, ma questa è un’alra storia…

Francesco Penza

Come dobbiamo scrivere in Griko: intervento di Penza

Io non ho imparato il griko dalla mamma, l’ho conosciuto dalle poesie e dai canti, mi sono innamorato di questa lingua ed iniziai ad impararla dal libro di Salvatore Tommasi “Katalisti o kosmo”. Per questo scrivo con il kappa, e scrivo “ch” per l’aspirata. Non penso che sia la migliore grafia del griko, possiamo anche scrivere con la C e senza K, oppure con il H o la X al posto di CH per l’aspirata. Però c’è qualcosa che dobbiamo tenere bene a mente quando andiamo a scegliere un alfabeto per il griko.
Io credo che l’alfabeto del griko deve essere adatto al griko, non alla lingua italiana o al greco moderno che parlano in Grecia. Può sembrare una cosa scontata, ma forse non lo è.
Una volta avevo scritto nella mailing-list Magna Graecia che credevo che fosse una cosa buona scrivere il griko con i caratteri greci, ma scrissi anche che non potevamo pensare di farlo adesso che il griko si perde.
Oggi già sono pochi coloro che possono leggere il griko scritto con i caratteri latini, figuriamoci quanti saranno quelli che possono leggerlo con i caratteri greci: se vogliamo fare qualcosa per dare un po’ di vita al griko dobbiamo iniziare dall’alfabero latino.
Ma quale alfabeto latino? Alcuni dicono quello che tutti conoscono avendolo imparato a scuola, fatto per la lingua italiana; altri dicono che si scriva come il greco moderno traslitterato in caratteri latini.
Io credo che si debba trovare un alfabeto per il greco salentino, adatto a far sì che si mostrino le parole ed i fonemi che escono dalla bocca di quelli che parlano greco salentino, non italiano o neogreco.
Certo sarebbe meglio scegliere caratteri più “popolari” ma credo che non facciamo un peccato prendendo qualche carattere “straniero” (non è poi così straniero oggi il K) oppure dando un altro suono ad un carattere o gruppo di caratteri italiani.
Per me ogni suono della lingua grika dovrebbe trovare il suo posto nella grafia. L’alfabeto deve adattarsi alla lingua, non dobbiamo credere che nisogna stiracchiare la lingua perché si adatto all’alfabeto.
Altra cosa che si deve ricordare è he oggi si scrive con la tastiera del computer e qui si vendono tastiere per la lingua italiana, per cui sarebbe meglio scegliere caratteri che si ritrovano in questa tastiera.
Poi c’è un principio che secondo me va mantenuto quando si sceglie l’alfabeto: un segni scritto deve leggersi in un solo modo e un suono pronunciato deve scriversi solo in un modo.
Molte lingue non seguono questa legge, nel neogreco ci sono molti modi per scrivere la “i”, perché hano mantenuto l’antica etimologia nella scrittura. Io credo che quando si sceglie un alfabeto nuovo, sarebbe meglio evitare ogni fonte di confusione in modo che la scrittura sia lo specchio della parola.
Così questi devono essere secondo me le fondamenta della scrittura del griko:
- la grafia deve essere adatta alla lingua, non deve la lingua adattarsi per entrare in un alfabeto fatto per un'altra lingua.
- Deve essere facile scrivere il griko con il computer.
- Ogni suono (fonema) deve avere la sua scrittura (grafema), ogni carattere deve leggersi con un suono solo.
io ho iparato a scrivere K per kòkkalo, C per ceràsi, Ch per chèra e credo che non sia così difficile per chi legge capire che la CH non va letta come in italiano “chiesa”. Ma non ho problemi a scrivere còccalo, ceràsi, hera.
Basta che non si confonda niente.
Invece quello che non mi va bene è scrivere con lo stesso modo due suoni che non sono affatto uguali.
In griko e nel dialetto romanzo esiste un “SC” molto corto che non è affatto uguale allo “SC” di scena: kàscio, sciòko…. Io credo che sia meglio trovare un sistema che dia a questo fonema un suo posto nell’alfabeto griko. Quello che si vuole: sh, sj, cj, sç, ç, š, dj… o altri grafemi, basta che non ci si confonda (“sh” si potrebbe confondere con s+aspirata nel caso scrivessimo H per l’aspirata).
Altri fonemi che per me non si dovrebbero confondere sono il TS/TZ come “tsalìdi”, “tsekànno” e il DZ/Z come “zoì”, “zòsi”, “fonàzo/fonàzzo”. Non è la stessa cosa, devono essere mantenuti distinti.
Qualcuno scrive “z” quando è dolce il suono, “zz” quando è aspro, io credo che sia meglio scrivere “TS” o “TZ” quando è aspro e “Z” quando è dolce.
Quando lo “TS” viene dal greco antico Y “ps” o X “ks” in qualche paese viene pronunciato “fs/ss” (martano) o “sc” (Zollino e talora Castrignano). Sarebbe bello trovare una grafia che possa unificare questa diaspora di ts/fs/ss/sc però forse rischiamo anche di confondere le cose, meglio che si veda il fonema di ogni paese.Altro problema per me sono le parole che finiscono per S e N, consonanti finali che sembrano scomparse ma in realtà spesso si nascondono nell’assimilazione alla consonante che segue, ma questa è un’alra storia…

Francesco Penza

Come dobbiamo scrivere in Griko: intervento di De Pascalis

Più che come, con quale.

Prima di cominciare a parlare sarebbe buona cosa mettere alcuni paletti.
E quindi, più che come, con che cosa, con quale alfabeto è opportuno scrivere?
Si deve scrivere con l’alfabeto italiano?
Dobbiamo scrivere con un alfabeto straniero?
Almeno per questo che la pensiamo tutti allo stesso modo.
Non ho la certezza, ma credo che, interpellati, tutti sceglieremmo l’alfabeto italiano.
E l’alfabeto italiano è composto da ventuno lettere. Per le parole straniere, molte volte si ricorre alle lettere J, K, Y, W, e X.
Per le parole straniere.
Adesso, quando siamo tra di noi possiamo fare ciò che vogliamo e ognuno può scrivere come vuole. Ma con il giornale non è la stesa cosa.
Dobbiamo tener presente che il giornale lo possono leggere tutti. E le persone ogni giorno leggono con le ventuno lettere dell’alfabeto italiano.
E ciò che ci dice la gente e che trova difficile leggere “i Spitta”.
Per questo dobbiamo mettere attenzione a non fare le cose ancora più difficili.
Dobbiamo allora mantenerci, quanto più possiamo vicino a ciò le persone sono abituate a vedere quando si mettono a leggere.
Il giornale disseminato di “K” non agevola tutto questo
Un giornale, dove “ch” non si pronuncia più col suo suono, inganna colui che legge. Mi sembra, avete presente quella canzone di alcuni anni fa che faceva, con grande arroganza, “fatti più in là”? Ecco così mi sembra!
Per questo, credo, che dobbiamo scrive, finché lo possiamo fare, con le lettere dell’alfabeto italiano, lasciando stare “gli altarini” come stanno. Senza cambiare niente, ripeto, finché ciò è possibile.

Per tutto ciò le mie proposte sono le seguenti:

“H” per l’aspirata. E’ sufficiente questo perché tutte le lettere rimangano al proprio posto

“J” per le parole come: ghèjo, àjo, ecc..

Per il suono “ZZ”(z aspra) io proporrei:
Quando tutti i paesi pronunciano allo stesso modo (azzumpò, ammazzìti, pezzonno, ecc.), scrivere “ZZ”.
Quando le parole provengono dal ”cs” o dal “ps” (psomì, csìlo, ec.),
i paesi che pronunciano “zz” come Sternatia, che scrivano “ts” o “tz” ( si scelga un modo);
i paesi che pronunciano “SS” o “Fs” che scrivano “fs”.

Giuseppe De Pascalis.

Taranta nuovo dio (Taranta cinùrrio teò)

Per quello che io sapevo e per quello che ancora ricordo, riterrei che “La Notte della Taranta” non abbia niente a che vedere con il fenomeno delle tarantate.
Il ballo della pizzica era il ballo della gioia, della festa, delle belle notti estive sull’aia. La pizzica la ballavano tutti. Grandi e piccoli. Giovanotti e signorine. Sull’aia, nelle case.
La Tarantata era esclusivamente donna. La Tarantata ballava il dolore. I sussulti, il contorcersi del corpo rappresentavano delle grida. Grida di aiuto. Grida di aiuto al mondo, alla gente, ai santi. A san Paolo.
La Tarantata ballava la solitudine. A Galatina. In piazza di fronte alla chiesa. Dentro la chiesa. La Tarantata ballava per San Paolo.
San Paolo guariva. San Paolo proteggeva.
E le genti ogni ventinove di giugno andavano a far visita a San paolo.
Andavano le tarantate per chiedere la grazia e ci andava l’altra gente per pregare il Santo per proteggerla dal morso del serpente e dal morso della Taranta.
E andava mia madre. Si univano diverse amiche e andavano a Galatina. A piedi. Io non la vidi mai partire. Si alzavano la mattina presto, molto prima del sorgere del sole, e andavano. La vedevo quando ritornava, ma non l’aspettavo mai con molta gioia. Eppure ritornava sempre con qualche cosuccia per noi piccolini. Ma io avevo paura per ciò che mi doveva raccontare. E ci raccontava delle tarantate: buttate per terra, come si contorcessero, come riuscissero a passare attraverso i pali delle sedie, come si arrampicassero sull’altare. E fare attenzione perché si avventavano sulla gente vestita con abiti un po' più appariscenti. E poi, ancora, per devozione dovevi attingere e bere l’acqua da un pozzo collocato all’interno della chiesa e pieno di serpi.
Non era un racconto, era la verità! Ed era tanta la paura, tanto il dolore, il patos che avvertivo, che bastava che mi passasse dalla mente o udire il nome Paolo per sentirmi a disagio.
Adesso ogni estate, ci sono diversi anni, qui in Grecìa Salentina si tiene una manifestazione chiamata “Notte della Taranta”: in ogni paese si tiene un concerto, e si chiude con un megaconcerto a Melpignano, dove si raccolgono migliaia di persone per ascoltare gente, artisti, che vengono da ogni parte a cantare al suono della pizzica. La gente si diverte. I giovani non vanno trovando altro. Passare la notte tranquillamente. Ballare senza pensieri fino al mattino.
Sono notti di gioia, di risa. Sono notti felici.
Quanto costano, quanto valgono queste manifestazioni? Non importa. Abbiamo diritto pure noi ad aver parte al debito pubblico.
Ma cosa ha da spartire tutto questo con la paura della taranta? Con il dolore della Tarantata? Dove sta nascosto san Paolo?
Mischia tutto e commetti peccato. Mischia tutto e arrechi danno. Mischia tutto e non si capisce più niente. Mischia tutto e recidi le radici.
Forse sarebbe stato meglio chiamarla “notte della pizzica”. Nessuno avrebbe potuto dire niente.
Forse.
E se le cose no stessero proprio cosi? E se al giorno d’oggi la vita non è poi così bella, cosi spensierata, cosi felice come può sembrare? E se la gente si sentisse sola più di una volta? Imbrogliata dalla vita che non mantiene ciò che promette? Con i soldi che non sono sufficienti per tutto il mese? Con i giovani che non riescono a trovare un lavoro? E’ possibile che si cerchi di scaricare la rabbia con la pizzica?
Morsicati dalla globalizzazione balliamo. Balliamo la pizzica. Balliamo la pizzica per esorcizzare il male. Balliamo la pizzica la notte della taranta.
Balliamo per la Taranta, nuovo Dio.
Può essere.

Giuseppe De Pascalis

Mietitura e Trebbiatura (Terìmmata ce alònimma)

Il sole dell’estate fa il mare splendente con colori un po’ azzurri e un po’ verdi, e i campi con le spighe di grano sembrano d’oro.
E’ arrivato giugno con il suo caldo ed in alcuni luoghi arriva il tempo delle messi; anche in Salento ed in Grecia. In Puglia ci sono molti campi in cui matura ottimo grano duro, conosciuto in tutta Italia; nel Salento con la farina di questo grano si fa la pasta e delle belle friselle, che la mia amica di Calimera ogni tanto mi invia tramite posta. Le preparo con olio, pomodori, poco origano, formaggio e diventano golosissime.
Di Friselle ce ne sono di diversi tipi in Grecia, ma quelle del Salento sono migliori.
Il Grano (Triticum sp) e l’orzo sono le prime piante che l’uomo coltivò migliaia di anni addietro e nella storia hanno rappresentato il più importante cibo del mondo.
Nell’antica Grecia e nell’antica Roma si raccontava che Triptòlemos sia stato il primo uomo a cui Dèmetra, dea della terra, abbia dato il seme e l’aratro e gli insegno ad arare e a seminare. Era ancora piccolino quando lo incontro Dèmetra. Lo amò e lo allevo come fosse suo figlio e gli insegno ad essere un uomo buono e retto che sappia intendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Gli diede inoltre un carro d’oro volante e lo mando per il mondo ad istruire le genti a seminare.
Sino a pochi anni fa, quando ancora non c’erano macchine gli uomini aravano la terra, il più delle volte con una coppia di buoi, e seminavano; mietevano con la falce; con le bestie, cavalli e buoi, trebbiavano il grano.
Mia madre, che quando era giovane, sull’isola di Rodi, andava alcune volte con i suoi fratelli a trebbiare, mi ha raccontato delle tradizioni legate a questo avvenimento e mi recitò alcune canzoni che le donne cantavano mentre si trebbiava e che si assomigliano a quelle della Grecia Salentina:
Vorrei saper dove stai trebbiando,
per mandarti un bel fazzoletto
per asciugare il sudore che ti scende.

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In mezzo alle spighe di grano vieni!
Nessuno ci vede
All’infuori delle stelle e della luna
E non diranno niente quelli lì.
Molte delle vecchie tradizioni i ragazzi non le conoscono affatto. I grandi non le insegnano ai loro piccoli. La vita era una gran fatica per i nostri avi. In quel tempo le persone si recavano a mietere quando il grano era maturo iniziando dall’alba quando, il gallo cominciava a cantare, fino a sera. Ogni famiglia aveva le proprie messi, però quelle che avevano molti campi chiamavano atri uomini per lavorare.
Gli uomini quando tagliavano i grano facevano dei manipoli li legavano con lo stesso grano e li lasciavano per terra. Dietro di loro passavano i “jermitari” che gli raccoglievano e facevano il covone. Venti covoni costituiscono la biga di grano. Lo disponevano in bighe se pioveva, altrimenti se c’era il sole lo disponevano più diritto (aperto) affinché si seccasse fino a quando lo trasportavano vicino all’aia pulita e lo ammassavano in grandi bighe.
Per trebbiare, facevano girare le bestie sull’aia con una pietra legata dietro che passando sopra il grano sfregando le spighe. C’era anche un altro uomo che con la forca rivoltava le spighe finche il grano non era trebbiato per bene ed era pronto per essere ventilato.
Liberata l’aia dal grosso della paglia, alzavano con le mani o con una pala di legno il grano mischiato con le reste e con la paglia sottile e lo lasciavano affinché venisse ventilato.
Le reste volavano col vento mentre i semi del grano ricadevano sull’aia. Tutto ciò non si poteva fare se non soffiava abbastanza vento. Successivamente il grano trebbiato e ventilato veniva setacciato e veniva tolto il loglio (zizzania).
Nel caldo di giugno e di luglio, coloro che lavorano le messi, a mezzogiorno, si rifugiavano nella fresca ombra della quercia vallonea e li sotto mangiavano e si riposavano. Il mangiare consisteva in fagioli cotti, verdure, cipolla dell’orto, pane, formaggio ulive ed acqua fresca. Le donne parlavano e chiacchieravano, e le giovanette ridendo contente pensavano alla festa che si faceva a fine lavori: “il capucanale”.
Poche spighe di grano non venivano tagliate, venivano lasciate nei campi perché le cogliessero le giovinette. Con queste spighe si intrecciavano forme di bambole di cuori e di pettini. Venivano legate con filo colorato e poi, portate a casa, venivano appese al muro per tutto l’anno. Sono antiche tradizioni greche che stanno a significare che nelle spighe è custodita la forza della nascita del grano, che si mantiene vivo nella casa e porta benedizione per le semine dell’anno a venire.
Altra tradizione era la seguente: quando finiva la mietitura sull’ultimo covone tutti gli uomini mettevano la loro falce una sull’altra e inginocchiati recitavano una preghiera per il buon grano e per l’abbondanza che aveva dato la terra. Prima che le falci venissero riprese un uomo aspergeva d’acqua le teste dei mietitori e le loro falci come segno di benedizione affinché ci fossero abbondanti piogge per la semina del prossimo anno.
Il “Capucanale” l’ offriva la padrona di casa a tutti parenti e a tutti coloro che avevano partecipato ai lavori di mietitura. Si faceva festa con musica e balli, molto vino e molto cibo. Bisognava cucinare anche qualcosa fatto con la farina del grano in onore alla terra: maccheroni, pane di grano, “pittule” e dolci come le “cartellate” con sopra il miele; molta verdura e, dagli alberi, frutta fresca.
Nella mitologia della antica Grecia, Dèmetra era la madre della terra e del grano, però il dio Apòllona era colui che custodiva i campi e gli alberi e così quando finiva la mietitura veniva fatto a lui dedicato un ringraziamento, gli veniva offerto grano cucinato con dentro della frutta.
Primi di Apòllona facevano la stessa cosa per il dio Sole.
Dopo la trebbiatura veniva impastato il primo pane , “thàrgalos”, con la nuova farina e veniva offerto in onore a Dèmetra.
Nell’antica Roma dove vi era la festa di Ceriala, la gente faceva dei piccoli pani sempre in onore di Cères (Dèmetra).
Nel paese di mia madre ancora oggi si fa questo pane con il segno della croce sopra(stavròtsomo), lo lasciano la notte vicina alla fontana e la persona che lo trova sarà fortunato, poiché farà buone semine l’anno prossimo

“Buone cose hai fatto, buone parole hai? Detto
oggi rallegrati; come hai seminato, mieterai”
Aprile
traud.313