lunedì 5 aprile 2010

Il buon fare

(to calò cai)

Uno ti passa davanti e ti dice: “Buongiorno” e tu gli rispondi: “Buongiorno”. Questo è un bel fare. E questo è il buon fare delle nostre genti.
Uno del vicinato fa il pane fresco (morbido) e ti porta una “ruvana” e un pane impastato con pomodori, zucchina, olive nere e peperoncino. Questo è il buon fare!
Il primo giorno del mese d’ottobre sulla strada che porta a Calimera, vicino alle scuole, vicino al venditore (distributore) di benzina, c'erano un ragazzino di dodici anni ed un camion di quelli piccoli; aspettavano entrambi che il semaforo diventasse verde, poiché era rosso. Il ragazzino, che si chiamava Salvatore, andava con la bicicletta, quando uscì il verde fece per partire e cadde sotto le ruote del camion, che partendo lo ammazzò. Questo non è un bel morire!
La morte quando arriva, anche se hai vissuto cento anni, non è mai cosa buona, ma per un ragazzino di dodici anni, che ha la vita davanti, è cosa peggiore.
La gente è spaventata a vedere quel ragazzino morto in mezzo alla strada; il sangue che usciva e andava in mezzo alla terra come quando hanno crocefisso il nostro Signore. Questa non è affatto cosa buona.
Il giovane Stefano lo portarono ammanettato i carabinieri, poi lo hanno rilasciato perché lui non lo aveva proprio visto il ragazzino.
Adesso Salvatore è morto! E Stefano sta sul fuoco: questa è cosa buona?
Tutta la gente di Martano è amareggiata per questa cosa poco buona. L’indomani i bambini che andavano insieme a scuola con Salvatore andarono tutti a messa ed al corteo vestiti di bianco; le ragazze, con la coroncina nei capelli, andavano con i cestini pieni di fiori e tutti piangevano Totò morto: questo è il buono della gente di Martano.
Tutti piangono tutta quella gente che muore sulle strade, come Giovanni Martina di Lequile, che possedeva il negozio “detershop”: andò a morire con la sua automobile
Ma questo è un altro morire. Sembra che il primo di questo mese non ci abbia portato cose buone.
Giovanni Martina era un bravo ragazzo per noi della “Spitta”, perché quando andavano per farci dare qualcosina per il giornale non ci diceva mai di no. Aveva sempre il sorriso sulla bocca. Il Cristo abbia misericordia per la sua anima. Questo è un buon fare.
Che stiate bene tutti. Queste sono giornate che sarebbe meglio che non venissero mai per tutta la gente.
Adesso vi ho stancato.
Sono sempre io con la grazia di Dio: Leonardo Antonio Giannuzzi di Martano.
Buona sorte a tutte le persone.

Leonardo Antonio Giannuzzi

sabato 3 aprile 2010

Lettera alla redazione

Riceviamo e pubblichiamo la lettera di un lettore a proposito dei temi trattati dall'articolo del prof. Salvatore Sicuro apparso sul numero 8.

Spett.le Redazione,
premetto di non conoscere i dialetti greci dell’Italia Meridionale e che le radici della mia famiglia non hanno mai avuto alcun legame con ceppi dell’Italia del Sud.
Il mio interesse per i dialetti greci della Calabria e del Salento nasce dal fascino che il greco antico da sempre esercita sulla mia sensibilità fin dai lontani anni del ginnasio. In particolare, non essendo mai stato convinto circa la validità della pronuncia “scolastica” del greco antico, da qualche tempo mi sto dedicando al problema della pronuncia. Di qui, il mio accostamento ai dialetti greci dell’Italia Meridionale, dacché con ogni evidenza derivano direttamente dalle parlate delle colonie greche fondate alcuni secoli prima di Cristo. Infatti, chi contesta detta derivazione antica, chiamando in causa l’espansionismo bizantino, o si rifiuta di rilevare l’evidenza o non possiede la preparazione necessaria per comprenderla. Mi trovo, pertanto, completamente d’accordo con il glottologo Gerhard Rohls, il quale, oltre a non avere alcun motivo personale per essere parziale, è stato di gran lunga il maggior studioso dei dialetti greco-italici ed ha contribuito ad una loro conoscenza meno approssimativa come nessun altro. Gerhard Rohlfs, diversamente da molti suoi colleghi, piuttosto che fantasticare e farneticare su una lingua che non è mai esistita, né mai venne parlata, come l’indoeuropeo, preferì immergersi in realtà linguistiche vere, non temendone lo studio continuo, indefesso e guidato da una sensibilità ed un’intelligenza superiori.
Tutto ciò premesso, vorrei fare alcune considerazioni a proposito della sorprendente lettera del prof. Salvatore Sicuro, rinunciando in questa sede ad argomentare su tutti i problemi ch’egli lascia affiorare, per limitarmi solo ad alcuni aspetti. In breve, il prof. Sicuro sembra voler semplificare il problema di una qualsivoglia lingua al numero dei vocaboli.
E, quanto al numero dei vocaboli, mi chiedo donde egli abbia tratto il numero di 170.000, quale patrimonio lessicale del greco moderno o neogreco. Pare opportuno precisare che in greco antico i verbi, escluse le forme derivate e dialettali, sono poco meno di 30.000, mentre i sostantivi e gli aggettivi, sempre escluse le forme derivate e dialettali, ammontano a poco più di 100.000, per un totale di circa 130.000 (un patrimonio lessicale tra i più estesi). Il numero dei lemmi di un buon dizionario di greco moderno, quindi comprensivo delle forme derivate e dialettali, dei vocaboli mutuati dal turco e di quelli non appartenenti al greco antico, non supera il numero di 70.000, di cui oltre i due terzi derivano dal lessico greco antico (infatti un vocabolo moderno come τηλέφωνο è in realtà un composto di due vocaboli antichi). Se poi si considera che solo le persone colte riescono ad utilizzarne fino a 20.000 e che la grande massa non ne impiega più di 8000, il numero citato dal prof. Sicuro lascia per lo meno perplessi.
Ma, accantonato il numero dei vocaboli, va sottolineato che una lingua non è solo il numero dei vocaboli, che in realtà è il dato meno caratterizzante. Ciò che differenzia una lingua da un’altra, ciò che costituisce l’unica vera difficoltà per chi non la conosce, non è dato dal numero di vocaboli ma dalla struttura morfologica e sintattica e dalla cosiddetta sintassi stilistica, in altre parole dal modo di formulare il pensiero. Basterà un semplicissimo esempio per chiarire il concetto: se per tradurre in inglese la semplice domanda “quanti anni hai?”, sostituisco i vocaboli italiani con i corrispondenti inglesi, ottengo “how many years have?”, che risulterà assolutamente incomprensibile a qualsiasi anglofono!
Per i greci già ventenni negli anni Settanta, di media istruzione, un passo di Platone risultava incomprensibile; tuttavia, molti dei vocaboli erano noti. Era come se avessero a disposizione una Rolls-Royce smontata, ossia un lessico tra i più ricchi, che però non erano in grado di assemblare. (I ventenni greci di oggi si trovano, dopo lo scempio dell’ortografia e la messa al bando della καθαρεύσα in una condizione assai peggiore.) Personalmente, preferisco chi, avendo a disposizione una semplice Fiat 500, sappia riassemblarla e fare così molta più strada…
Non dico che l’apprendimento del greco moderno debba essere stigmatizzato; dico piuttosto che può costituire solo un termine di confronto affinché vengano evidenziate le differenze. I dialetti greco-italici possiedono tratti caratteristici che il greco moderno non ha più da secoli, come ad es. la vitalità del modo infinito. Avvisi in luoghi pubblici quali ἀπαγορεύεται καπνίζειν, oggi forse non più leggibili, erano in realtà paragonabili all’esposizione di una mummia.
Il prof. Sicuro cita la voce ἀρτοπωλεῖο quale degna alternativa a ‘furno’. Ma che cos’ha che non va φοῦρνο? Anche in Grecia, parlando, si usa φοῦρνο, ψωμάδικο, non certo ἀρτοπωλεῖο, leggibile forse ancora su qualche insegna. (In ogni caso in greco antico si direbbe ἀρτοπώλιον). Ad esempio, in Grecia ‘armadio’ si dice ντουλάπα, un orrendo vocabolo turco che, tuttavia, il corrispondente greco ἱματιοθήκη non è riuscito a soppiantare. Quanto ad ‘auguri’ e ad ‘augurare’ non mi risulta che in neogreco esistano voci propriamente equivalenti, bensì espressioni più o meno corrispondenti, ma non equiparabili, a seconda delle occasioni.
Di contro, questo povero, miserevole vocabolario di soli 6000 vocaboli, contiene tra le altre una voce, ἀσκλούνι, la quale, comparata ad un passaggio di Aristotele che cita Omero, ha permesso di sollevare un velo sul vero significato di χλούνης, già perduto nell’antichità (cf. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, nouvelle éd., Paris 1999, p. 1264, s.v.). Forse per il prof. Sicuro si tratterà di una quisquilia; per me, invece, è la testimonianza di un tesoro da scoprire. Occorrerebbe sensibilizzare in primo luogo gli studenti calabresi e pugliesi del liceo classico affinché si sentano spronati ed invogliati a cercare le proprie radici che non appartengono a nessun altro, se non a loro; metterle a confronto con il greco scolastico (?!); parlare nel loro dialetto con gli anziani ancora residenti nei paesini meno raggiungibili; un po’ come si fa quando si va ad un mercatino dell’antiquariato: sono soprattutto pieni di patacche, ma qualche volte si trovano oggetti unici, nel nostro caso vocaboli, espressioni non ancora registrate…
Nessun albero fruttifica senza radici e persino un albero abbattuto può rinascere dalle sue radici; lo stesso vale per l’uomo e la sua cultura, che non è la scuola, ma l’ambiente naturale dov’è nato, i suoi antenati, la sua lingua, le sue tradizioni. Si è mai visto un albero che si distrugge da sé le sue radici?
Scusate se mi sono dilungato un po’. Mi fermo qui, altrimenti mi ritrovo a pagina 100 da solo…!?!?!
Complimenti per la immediata, garbata ma ferma risposta al prof. Sicuro.

Con i migliori beneauguranti saluti,

Franco L. Viero
Dorno, 29 ottobre 2009

Giro e mi rigiro nel mio letto...

(Votò ce tsevotò c’es to grattài)

Giro e mi rigiro nel mio letto..

Dove sei, Dio, ch’io non ti trovai!
Ho scrutato il cielo e nelle stelle…
in mezzo ai prati e tra le viti andai;
tra le mani guardai, sotto la pelle...

e vidi solo buio dentro me.

Molto lontan da te perché t‘intenda?
Molto lontan chè mi possa tu aiutare?
Vieni vicino un po’ ch’ io ti comprenda.
Se t’ ho oltraggiato tu non mi cacciare.

Pregò mia madre che ti venissi incontro.

Ma nella nebbia, non so trovar la via:
chiedo e chiunque incontri… mi sorride.
gli occhi accecò il sole che mi vide?
Bene non t’ha cercato… l’anima mia?

Più io cerco e più solo son io!

In chiesa non portai mai dei lumini.
Per ciò che ti dirò non t’irritare:
credo ti vidi nel riso dei bambini
e nelle lacrime di chi “tira a campare”.

Paolo Di Mitri

Lascialo il Domenicone

(Asto to Minecùna)

Nei racconti di Esopo, il Grande, Il Cattivo, più o meno, è colui che fa le figure e paga sempre per il suo comportamento.
I racconti voglionom essere degli insegnamenti per gli uomini. Ogni volta che li ascoltiamo o li leggiamo restiamo meravigliati per quanta verità contengono.
Sono passati migliaia di anni e ciò che però li separa dalla vita quotidiana e che nella vita di ogni giorno colui che paga e sempre il più piccolo, il più indifeso.

Il racconto che segue sembra uscire dalle favole di Esopo, ma questa cosa è successa veramente per cui chi paga è il più poveretto.
Tempo addietro un padrone mise alcuni uomini a lavoarre nel suo campo.
Costoro andavano e sarchiavano il grano e tagliavano le erbe e ogni tanto capitava anche qualche pianta di grano. Quando finirono, andarono dal padrone per essere pagati. Entro il primo es il padrone disse:
- Beh, avete sarchiato bene? L’erba l’avete tagliata?
- Si
- E le piante di grano?
- Ma, quante sono capitate, tante abbiamo tagliato!
- Allora ti tolgo due soldi!
Uscì questi e disse: Il padrone mi ha tolto due soldi perché o tagliato molte piante di grano.
Entro un altro.
- Meh, hai sarchiato bene?
- Si!
- E tagliavi molte piante di grano?
- Non ho tagliato neanche una?
- Allora tu non hai sarchiato! Niente!
Questi uscì nuovamente e disse che non gli aveva dato niente perché aveva detto che non aveva tagliato nessuna pianta. Allora se tagliava le piante di grano gli toglieva i soldi, se non le tagliava non aveva lavorato.
Minecone, udendo così, preparo un bel bastone sotto il cappotto ed entrò.
Na, na Il Minecone disse il padrone.
- Allora tu sei anfdato in campagna a sarchiare?
- Si
- Hai tagliato molte piante?
- Quante sono capitate!
- Allora tu mi porti alla rovina!
E gli tolse la giornata (non lo pagò). Beh, disse il Domenicone, adesso ti faccio vedere io se ho tagliato o non ho tagliato, se mi paghi o no la giornata. Caccio il bastone e fece fibta di colpirlo.
Allora il padrone disse: no, no tieni, tieni i soldi.
Passarono pochi giorni ed il fattore uscì per la piazza a trovare nuovamente degli uomini per sarchiare.
Hai messo gli uomini? Disse il padrone al fattore. Si, disse il fattore, ho messo pantaleo, ho messo Pasquale e ho messo anche Minecone. Lascialo il Minecone, Lascialo il minecone, disse il padrone. E non lo assunse più a lavorare a giornata.
Come ricordiamo nel dicembre 2007 la thyssen krupp, una fabbrica che lavorava il ferro, si incendiò e sette uomini morirono bruciati. La fabbrica pagò i dannì e trovò un nuovo posto di lavoro per tutti gli operai. Durante la causa però alcuni operai si costituirono parte civile. Per questi non si è trovato più un lavoro e sono stati licenziati. Lascialo il minecone!

Giuseppe De Pascalis

Due lingue sono meglio di una

(Diu glosse ine kajo pi' mia)

Una delle falsità a cui molti credono è che il Griko non giovi ai bambini, che perdiamo tempo ad insegnargli una lingua così poco parlata. Questo perché solo l’italiano può servire da queste parti, mentre per trovare lavoro devono imparare l’inglese invece di riempirsi la testa con parole grike che non sono di alcuna utilità.
Un martanese che avevo incontrato a Siena mi disse che si ricordava qualche canto griko che aveva imparato da bambino, ma erano come residui, “immondizia che gli occupava spazio nella testa”. Così mi ha fatto capire come a lui sembrasse giusto che il Griko scomparisse e che non venisse insegnato ai bambini.
Sappiamo ora che le cose non stanno così. Molti studiosi credono che due lingue siano utili, e l’anno scorso è uscito uno studio pubblicato in una rivista scientifica1 che ha dimostrato come i bambini nati in posti dove si parlano due lingue riescono meglio poi ad impararne altre.
Così si vede che se i genitori delle nostre parti avessero insegnato il Griko ai bambini, questi adesso sarebbero più capaci di imparare l’inglese. Si è dimostrato come le parole grike imparate non sono affatto scorie che occupano spazio nella nostra testa ma possono giovare anche per entrare in un mondo che non parla né griko né italiano e dove conviene imparare l’inglese e tante altre lingue.

Francesco Penza

1Kovács AM, Mehler J
Flexible learning of multiple speech structures in bilingual infants.
Science. 2009;325(5940):611-2